Onorevoli Colleghe e Colleghi! - Se - come afferma Hannah Arendt - la politica è il senso della libertà, se ne può sicuramente dedurre che alla politica si arriva per desiderio e per passione.

      Inoltre la politica è l'essenza della cittadinanza, almeno per due ragioni. In primo luogo, perché nelle tradizioni culturali che hanno fatto da madri alla civiltà occidentale, politica e cittadinanza hanno la stessa etimologia, quella di città. Città non come cittadella-fortezza, né come spazio architettonico (agorà), ma come essenza del potere e dell'esercizio del governo.

      In secondo luogo, politica e cittadinanza sono strettamente legate in quanto l'esercizio della cittadinanza non può darsi senza la politica, sia come agire politico che come pratica.
      Partecipare è quello che banalmente e - spesso - solo formalisticamente si richiede al «cittadino»: l'invito a votare fin alla richiesta, più democratica, di associarsi, di «premere dal basso», eccetera. Ma questa partecipazione non è il superamento della sudditanza, anzi - nella società spettacolo americanizzata - può accompagnare, sancire, legittimare il potere monocratico od oligarchico.
      Partecipare è costruire la possibilità di un giudizio critico, intanto, ma non solo. Partecipare è costruirsi gli strumenti della decisione e della trasformazione.
      Se sono veri questi assunti, possiamo tranquillamente affermare che per le donne, sia come individui che come soggetti collettivi, il desiderio di libertà e la politica sono stati due binari, paralleli ma concordi, su cui si è costruita la soggettività autonoma femminile.
      Intellettuali, signore borghesi, operaie, contadine, in ogni parte del mondo

 

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hanno discusso, scritto, lottato per conquistarsi spazi nella società politica e nelle istituzioni, insomma «diritti» civili e politici.
      Ma la politica costa, e senza le «cinquecento ghinee» la libertà femminile rischia di diventare un fiore di serra, importante certo, ma non sufficiente, e soprattutto non efficace a cambiare il mondo. Certo, si potrebbe seguire la strada degli sponsor, ma le promotrici di questa proposta di legge non intendono seguirla.
      Le donne sono le più grandi volontarie, in ogni senso e in ogni luogo, dalla famiglia ai luoghi di cura, ai bambini, agli anziani, ai disabili, persino in guerra come crocerossine o nei campi profughi; come assistenti sociali e tuttofare; come maestre e come bidelle.
      In questo campo non hanno nulla da imparare.
      Ma oggi chiediamo che sia data alle donne e alle loro associazioni la possibilità concreta di comunicare e di far conoscere le loro idee, i loro messaggi culturali e politici, le loro pratiche. La loro parola.
      Qualche anno fa fu stabilito con una norma confusa e discutibile che il 5 per cento delle somme che lo Stato destinava ai partiti fosse destinato alla «promozione» (gran brutta parola) della politica delle donne. In questo modo, però, sono escluse le tante donne che decidono di non stare nei partiti (anche per i difetti dei partiti) e si associano su progetti, valori, ideali.
      Alle associazioni di donne proponiamo che ogni contribuente, uomo o donna, possa decidere di destinare una quota di quanto deve all'erario pubblico, per scelta.
      Si tratta appunto di una «scelta» e, pertanto, di una contribuzione che nasce dal desiderio che la politica sia attraversata dalle proposte delle donne. Non si tratta di erogazioni statali «a pioggia», ma di costituire un «Albo delle associazioni e organizzazioni delle donne» con determinati requisiti, con meccanismi rigorosi di trasparenza e di controllo pubblico.
      In conseguenza delle motivazioni esposte, la proposta tende a modificare la legge 20 maggio 1985, n. 222; suggerisce di elevare dall'otto al dieci per mille la quota dell'imposta sui redditi destinata agli scopi di cui all'articolo 47, secondo comma, della legge n. 222 del 1985, e di aggiungere tra i soggetti destinatari di tale quota «l'Albo delle associazioni e organizzazioni delle donne», modificando in tale senso l'articolo 50, quarto comma, della stessa legge n. 222 del 1985.
      Si tratta cioè di estendere il ventaglio delle scelte delle e dei contribuenti a soggetti sociali (le associazioni e organizzazioni di donne) che, al di là delle opinioni politiche e religiose, si adoperano per la crescita e la diffusione della cultura e della politica delle donne e lavorano in vari settori della società civile con un'ottica di genere.
      Crediamo sinceramente che un Parlamento, come quello italiano, che è tra i più maschili d'Europa, debba «automoderarsi» come genere e approvare la proposta di legge.
 

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